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Herbie Hancock
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Herbie Hancock
Musicista statunitense jazz, fusion e...
12 aprile 1940
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10
Puoi trovare le
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anche in questi temi:
Jazz
Razzismo
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Tutti noi siamo istintivamente portati a imboccare la strada più sicura, a scegliere le soluzioni già sperimentate invece di assumerci dei rischi, ma questa è l'antitesi del jazz, che per sua natura si fonda sul qui e ora. Jazz significa essere dentro il momento, in ogni momento. Significa fidarti della tua capacità di reagire al volo. Se ci riesci, non smetterai mai di esplorare e di imparare, nella musica come nella vita.
Sono nato nel 1940, e da bambino credevo che fossimo ricchi, perché avevamo sempre tutto ciò che desideravamo: vestiti, cibo, l'albero di Natale e giocattoli nuovi ogni anno. Che ne sapevo io, però? Non avevo mai conosciuto nessuno che non fosse del quartiere, e rispetto a certe altre famiglie del vicinato avevo l'impressione che ce la cavassimo alla grande. Nel seminterrato del nostro palazzo c'era una famiglia di una decina di persone che vivevano stipate in una sola stanza. Noi, invece, avevamo due camere da letto per cinque persone: i miei genitori, mio fratello Wayman, mia sorella Jean e io. E a me sembrava un lusso.
Non c'è da meravigliarsi che mia madre, Winnie Griffin Hancock, ci tenesse tanto a farmi avere un pianoforte. Aveva sempre cercato di trasmettere ai figli l'amore per la cultura, a cominciare dal nome che mi aveva dato: Herbert Jeffrey Hancock, dal cantante-attore afroamericano Herb Jeffries. Per mia madre cultura significava musica, ecco perché ci tirò su a pane e Cajkovskij, Beethoven, Mozart e Hindel. Amava anche la musica della comunità nera - jazz e blues - e voleva che la ascoltassimo in quanto parte del nostro patrimonio, ma la «buona musica» per lei era la classica: ecco perché, una volta che ebbi il mio strumento, mandò me e mio fratello a lezione di pianoforte classico.
Stoccolma, metà anni Sessanta, sul palco con il Miles Davis Quintet. Siamo in tour, lo show è incandescente, la band affiatata: tutti sintonizzati, tutti sulla stessa lunghezza d'onda. La musica fluisce, c'è contatto con il pubblico, è una magia, un incantesimo.
Tony Williams, il batterista prodigio che ha cominciato a suonare con Miles da ragazzino, è un vulcano. Le dita di Ron Carter volano su e giù per il manico del contrabbasso, il sax di Wayne Shorter urla come un indemoniato. Noi cinque siamo diventati un'entità sola, seguiamo la corrente della musica. Stiamo suonando «So What», un classico di Miles, e raggiungiamo l'apice quando ci lanciamo verso il suo assolo: l'intero pubblico è stregato.
Miles attacca, apre la strada all'assolo, e un attimo prima di scatenarsi fa un respiro. Proprio in quel momento, io suono un accordo completamente sbagliato. Non ho idea di come mi sia venuto, so soltanto che è l'accordo sbagliato nel momento sbagliato, e ora eccolo lì che penzola in bella vista come un frutto marcio.
"Oh, merda", penso. È come se avessimo costruito una meravigliosa casa sonora e io le avessi appena dato fuoco.
Miles si ferma per una frazione di secondo, quindi suona delle note che non so come, per miracolo, fanno sembrare giusto il mio accordo. In quell'attimo, credo proprio di essere rimasto letteralmente a bocca aperta. Che razza di stregoneria era? Da lì Miles spiccò il volo, sfoderando un assolo che portò il brano in una direzione nuova. Il pubblico era in delirio.
Per un nero cresciuto nell'America degli anni Quaranta e Cinquanta, i piccoli gesti razzisti erano il pane quotidiano. E tuttavia, già a undici anni io tendevo a non dare peso alle offese razziali. Ero fatto così.
Mi ci vollero anni per capire cos'era successo sul palco in quel momento. Non appena suonato l'accordo, l'avevo giudicato: nella mia mente era l'accordo «sbagliato». Miles invece non l'aveva giudicato: gli era capitato di sentire quel suono e immediatamente l'aveva raccolto come una sfida: Come posso inquadrare quell'accordo in ciò che stiamo facendo? E siccome non l'aveva giudicato, era riuscito ad assecondarlo, a trasformarlo in qualcosa di incredibile. Miles si fidava della band e di se stesso, e ci incoraggiava sempre a fare altrettanto. È una delle tante lezioni che ho imparato da lui.
Ho avuto la fortuna di impararlo non solo suonando con Miles, ma anche nei successivi decenni di vita musicale. E imparo ancora oggi, ogni singolo giorno. È un privilegio di cui mai avrei immaginato di godere quando, a sei anni, iniziai a strimpellare il pianoforte del mio amico Levester Corley.
Levester abitava nel mio stesso palazzo, all'angolo tra la Quarantacinquesima Strada e King Drive nel South Side di Chicago: un quartiere povero ma, nella Chicago degli anni Quaranta, non il peggiore. Probabilmente eravamo un gradino più su di quello più basso, vale a dire che se anche non vivevamo nelle case popolari, le avevamo a due passi.
Io non consideravo «brutto» il nostro quartiere, benché non mancassero le aree mal frequentate. C'erano le bande, e in fondo all'isolato c'era una casa fatiscente che chiamavamo Big House, vale a dire «prigione» in slang. Davanti alla Big House c'era quasi sempre un capannello di ragazzi, e quando li vedevamo sapevamo di dover passare dall'altra parte della strada. Di solito, però, io non mi sentivo in pericolo: pensavo semplicemente che il mio fosse un quartiere come tutti gli altri.
Levester abitava a un altro piano, e quando compì sei anni i genitori gli regalarono un pianoforte. Mi era sempre piaciuto stare con lui, ma da quel momento andare a suonare il piano a casa sua divenne un'ossessione. Pur non sapendo ancora che cosa stavo facendo, adoravo la sensazione dei tasti sotto le dita.
Strimpellavamo insieme, io provavo qualche canzone e poi lo raccontavo a mamma. Dopo un po' di tempo, lei disse a mio padre: «Dobbiamo comprare un pianoforte a questo ragazzo». E fu così che, quando avevo sette anni, acquistarono un pianoforte usato nel seminterrato di una chiesa per cinque dollari circa.
Avevo poco più di vent'anni e suonavo con Miles già da un paio, ma lui riusciva sempre a sorprendermi. Di sicuro lo fece quella sera, rendendo giusto il mio accordo sbagliato. Nel camerino, dopo il concerto, gli chiesi come aveva fatto. Ero un po' imbarazzato, ma lui si limitò a farmi l'occhiolino con un accenno di sorriso sul volto cesellato. Non disse nulla. Non ce n'era bisogno. Miles non amava parlare delle cose che poteva farci vedere.
Le posizioni di mia madre su cultura e classi sociali affondavano le radici nell'infanzia inconsueta che aveva trascorso nel Sud. Sua madre - mia nonna Winnie Daniels - era cresciuta povera ad Americus, in Georgia, in una famiglia di mezzadri che lavoravano la terra dei Griffin, i loro ricchi padroni. Diventata maggiorenne, tuttavia, mia nonna aveva sposato un figlio dei Griffin, trasformandosi di punto in bianco da colona a moglie di un proprietario terriero. Risultato: mia madre e suo fratello Peter erano nati in un ambiente più facoltoso rispetto alla media dei bambini neri del Sud.
Altri autori di aforismi
Hamsun, Knut
Hanks, Tom
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