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Phil Knight
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Phil Knight
Imprenditore statunitense, fondatore...
24 febbraio 1938
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Il denaro, quando è cominciato ad arrivare a palate, ha influenzato noi tutti. Non molto, e non per molto, perché nessuno di noi è mai stato motivato dal denaro. Ma è questa la natura dei soldi. Che tu ne abbia o meno, che tu ne voglia o meno, che ti piacciano o meno, cercheranno di definire la tua vita. Il nostro compito di esseri umani è fare in modo che non sia così.
Stavo sviluppando un malsano disprezzo per l'Adidas. O forse era sano. La società tedesca aveva dominato il mercato delle calzature sportive per un paio di decenni, e aveva tutta l'arroganza di chi è abituato a dominare in modo incontrastato. Naturalmente, è possibile che non fossero affatto arroganti, che avessi bisogno di vederli come mostri per motivare me stesso. In ogni caso, li disprezzavo, e non mi piaceva doverli inseguire. Ero stanco di alzare lo sguardo ogni giorno e vederli laggiù, sempre più avanti. Non sopportavo l'idea che il mio destino fosse quello di continuare così per sempre.
Ecco il modo più semplice per capire cosa provi per una persona: dirle arrivederci.
Il commercio internazionale beneficia sempre, sempre, entrambe le nazioni interessate. Un'altra frase che ho sentito spesso dagli stessi professori è l'antica massima: «Quando le merci non valicano i confini nazionali, lo faranno i soldati». Anche se, com'è risaputo, definisco gli affari una guerra senza pallottole, li considero comunque uno splendido baluardo contro la guerra vera. Il commercio è la via della coesistenza, della cooperazione. La pace si alimenta con la prosperità.
Quella mattina del 1962 mi sono detto: lascia che gli altri definiscano folle la tua idea... tu prosegui per la tua strada. Non ti fermare. Non pensarci neanche di fermarti finché non arrivi là, e non stare a preoccuparti di dove sia «là». Accada quel che accada, tu non ti fermare.
Come tutti i miei amici aspiravo al successo. A differenza di loro non sapevo che cosa significasse. Soldi? Forse. Una moglie? Dei figli? Una casa? Certo, se avessi avuto fortuna. Erano questi gli obiettivi ai quali mi era stato insegnato ad aspirare, e una parte di me era a quello che aspirava, istintivamente. Ma nel profondo cercavo qualcos'altro, qualcosa di più. Avevo la penosa sensazione che il nostro tempo fosse breve, più breve di quanto pensassimo, breve come una corsa mattutina, e volevo che il mio avesse un senso. E uno scopo. Che fosse creativo. E importante. Ma, soprattutto... diverso. Volevo lasciare un segno nel mondo. Volevo vincere. No, non è esatto. Semplicemente, non volevo perdere. E poi è successo. Mentre il mio giovane cuore iniziava a martellare, i miei polmoni rosei si allargavano come le ali di un uccello e gli alberi diventavano indistinte macchie verdastre, mi passò davanti agli occhi, con assoluta chiarezza, quello che volevo fare della mia vita. Un gioco. Sì, pensai, ecco. Questa è la parola giusta. Il segreto della felicità, l'avevo sempre sospettato, l'essenza della bellezza o della verità, o tutto ciò che dobbiamo sapere di entrambe, sta in quel momento in cui la palla è a mezz'aria, quando i due pugili sentono avvicinarsi il suono della campana, quando i corridori sono prossimi al traguardo e la folla si alza come un corpo solo. C'è una sorta di esuberante chiarezza in quel fremito, mezzo secondo prima che si decidano la vittoria o la sconfitta. Quella, qualunque cosa fosse, doveva essere la mia vita, la mia esistenza quotidiana.
Poche idee sono folli come la mia attività preferita, correre. È dura. Ingrata. Rischiosa. Le ricompense sono poche e tutt'altro che garantite. Quando corri su una pista ovale o lungo una strada deserta, non hai una destinazione reale. Quantomeno, nessuna che giustifichi appieno un tale sforzo. È l'atto stesso a diventare la destinazione. Non è soltanto che il traguardo non c'è; è che sei tu a definire il traguardo. I piaceri o il profitto che puoi trarre dall'atto di correre li devi trovare dentro di te. È tutta questione di come te lo presenti, di come lo vendi a te stesso. Qualunque podista lo sa. Corri e corri, un miglio dopo l'altro, e non sai mai esattamente perché. Ti racconti che stai correndo verso un obiettivo, che stai inseguendo una qualche sensazione esaltante, ma in realtà corri perché l'alternativa, fermarti, ti spaventa a morte.
Mi rivedo come fosse ieri a presiedere il tavolo della riunione, a urlare e farmi urlare dietro, e a ridere fino a non avere più voce. I problemi che avevamo di fronte erano seri, complessi, apparentemente insormontabili, e ingigantiti ulteriormente dal fatto che eravamo divisi gli uni dagli altri da 5000 chilometri in un'epoca in cui le comunicazioni non erano né facili né istantanee. Eppure continuavamo a ridere. A volte, dopo una sghignazzata veramente catartica, mi guardavo intorno e mi sentivo sopraffare dall'emozione. Cameratismo, lealtà, gratitudine. Persino amore. Sicuramente amore. Ma ricordo anche lo choc nel vedere quali uomini avevo messo insieme. Erano quelli i padri fondatori di un'azienda multimilionaria che vendeva scarpe da atletica? Un paralitico, due ciccioni e uno che fumava come un turco?
Neanch'io guadagnavo un granché, e confidavano nel fatto che quello che gli davo era quello che potevo permettermi.
In campo pubblicitario il nostro approccio era primitivo e fatto alla meno peggio. Aggiustavamo il tiro procedendo, imparando sul campo, e si vedeva. In un annuncio – mi pare per la Tiger Marathon a suola piatta – definivamo il nuovo tessuto «swooshfiber». Ancora oggi nessuno ricorda chi coniò quella parola, né il suo significato. Ma suonava bene.
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