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Phil Knight
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Phil Knight
Imprenditore statunitense, fondatore...
24 febbraio 1938
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Il denaro, quando è cominciato ad arrivare a palate, ha influenzato noi tutti. Non molto, e non per molto, perché nessuno di noi è mai stato motivato dal denaro. Ma è questa la natura dei soldi. Che tu ne abbia o meno, che tu ne voglia o meno, che ti piacciano o meno, cercheranno di definire la tua vita. Il nostro compito di esseri umani è fare in modo che non sia così.
Da parte mia c'era una considerazione ulteriore, di tipo semantico. Segnato dalla timidezza, terribilmente riservato com'ero, trovavo insopportabile il concetto in sé: metterci sul mercato, luogo pubblico per eccellenza. No, grazie. Eppure, durante la mia corsa serale, a volte mi chiedevo: la tua vita non è forse stata una sorta di continua ricerca di una relazione con gli altri?
Come tutti i miei amici aspiravo al successo. A differenza di loro non sapevo che cosa significasse. Soldi? Forse. Una moglie? Dei figli? Una casa? Certo, se avessi avuto fortuna. Erano questi gli obiettivi ai quali mi era stato insegnato ad aspirare, e una parte di me era a quello che aspirava, istintivamente. Ma nel profondo cercavo qualcos'altro, qualcosa di più. Avevo la penosa sensazione che il nostro tempo fosse breve, più breve di quanto pensassimo, breve come una corsa mattutina, e volevo che il mio avesse un senso. E uno scopo. Che fosse creativo. E importante. Ma, soprattutto... diverso. Volevo lasciare un segno nel mondo. Volevo vincere. No, non è esatto. Semplicemente, non volevo perdere. E poi è successo. Mentre il mio giovane cuore iniziava a martellare, i miei polmoni rosei si allargavano come le ali di un uccello e gli alberi diventavano indistinte macchie verdastre, mi passò davanti agli occhi, con assoluta chiarezza, quello che volevo fare della mia vita. Un gioco. Sì, pensai, ecco. Questa è la parola giusta. Il segreto della felicità, l'avevo sempre sospettato, l'essenza della bellezza o della verità, o tutto ciò che dobbiamo sapere di entrambe, sta in quel momento in cui la palla è a mezz'aria, quando i due pugili sentono avvicinarsi il suono della campana, quando i corridori sono prossimi al traguardo e la folla si alza come un corpo solo. C'è una sorta di esuberante chiarezza in quel fremito, mezzo secondo prima che si decidano la vittoria o la sconfitta. Quella, qualunque cosa fosse, doveva essere la mia vita, la mia esistenza quotidiana.
Stavo sviluppando un malsano disprezzo per l'Adidas. O forse era sano. La società tedesca aveva dominato il mercato delle calzature sportive per un paio di decenni, e aveva tutta l'arroganza di chi è abituato a dominare in modo incontrastato. Naturalmente, è possibile che non fossero affatto arroganti, che avessi bisogno di vederli come mostri per motivare me stesso. In ogni caso, li disprezzavo, e non mi piaceva doverli inseguire. Ero stanco di alzare lo sguardo ogni giorno e vederli laggiù, sempre più avanti. Non sopportavo l'idea che il mio destino fosse quello di continuare così per sempre.
Poche idee sono folli come la mia attività preferita, correre. È dura. Ingrata. Rischiosa. Le ricompense sono poche e tutt'altro che garantite. Quando corri su una pista ovale o lungo una strada deserta, non hai una destinazione reale. Quantomeno, nessuna che giustifichi appieno un tale sforzo. È l'atto stesso a diventare la destinazione. Non è soltanto che il traguardo non c'è; è che sei tu a definire il traguardo. I piaceri o il profitto che puoi trarre dall'atto di correre li devi trovare dentro di te. È tutta questione di come te lo presenti, di come lo vendi a te stesso. Qualunque podista lo sa. Corri e corri, un miglio dopo l'altro, e non sai mai esattamente perché. Ti racconti che stai correndo verso un obiettivo, che stai inseguendo una qualche sensazione esaltante, ma in realtà corri perché l'alternativa, fermarti, ti spaventa a morte.
Farei qualsiasi cosa per poter tornare indietro, per prendere decisioni diverse, che forse avrebbero potuto evitare la crisi delle fabbriche sfruttatrici. Ma è innegabile che proprio quella crisi ha prodotto un cambiamento miracoloso, dentro e fuori la Nike. E di questo sono grato.
La mia Idea Folle. E adesso ero tornato, e stavo per portare quell'Idea in un nuovo, gigantesco mercato. Pensai a Marco Polo. Pensai a Confucio. Ma pensai pure a tutte le partite che avevo visto nel corso degli anni – football, basket, baseball – in cui la squadra in grande vantaggio negli ultimi secondi, o negli inning finali, si rilassava. Oppure si irrigidiva. E quindi perdeva. Mi dissi di smettere di voltarmi indietro, di tenere lo sguardo puntato avanti.
Quella mattina del 1962 mi sono detto: lascia che gli altri definiscano folle la tua idea... tu prosegui per la tua strada. Non ti fermare. Non pensarci neanche di fermarti finché non arrivi là, e non stare a preoccuparti di dove sia «là». Accada quel che accada, tu non ti fermare.
Ecco il modo più semplice per capire cosa provi per una persona: dirle arrivederci.
Brown riuscì a ideare una campagna e uno slogan che catturavano alla perfezione la filosofia della Nike. La sua pubblicità mostrava un corridore lungo una strada di campagna solitaria, circondato da alti pini Douglas. In Oregon, certo. Il testo diceva: «Battere gli avversari è abbastanza facile. Battere se stessi è un impegno senza fine». Tutti in azienda giudicarono l'annuncio innovativo e audace. Non si concentrava sul prodotto, ma sullo spirito alla base del prodotto, qualcosa che negli anni Settanta non si era mai visto. Le persone si complimentavano con me per quell'annuncio, come se avessimo realizzato qualcosa di rivoluzionario. Io mi stringevo nelle spalle. Non per modestia. Era solo che ancora non credevo nel potere della pubblicità. Per nulla. O un prodotto parla da sé, pensavo, oppure niente. Alla fine, è solo la qualità che conta. Non riuscivo a immaginare una campagna pubblicitaria in grado di dimostrarmi che avevo torto, o di farmi cambiare idea.
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