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Dino Zoff
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Frasi di Dino Zoff - pagina 2
Dino Zoff
Calciatore e allenatore italiano
28 febbraio 1942
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[Su Enzo Bearzot]
Quando si hanno dei principi come li aveva lui diventa facile compattare un gruppo, lui era un esempio per tutti.
[2010]
Dopo avere smesso, ho fatto solo due partite da non professionista. Non sono riuscito a evitarlo. Una era per un anniversario della Fifa a Zurigo, c'erano diverse squadre da tutto il mondo. E l'altra era una partita Italia-Germania, sette anni dopo, come ricorrenza dell'82. Me lo aveva chiesto Blatter. Me la sono cavata ancora. Da allora non ho mai più giocato. Per l'amor di Dio, mettersi lì con i dolorini e gli acciacchi. Misurare la propria vecchiaia, il decadimento fisico, l'inadeguatezza. Non c'è alcun bisogno di porsi davanti allo specchio in certe circostanze.
Ho fatto il portiere. L'ho fatto alla grande. Sono stato un uomo fortunato. Basta così. Meglio concentrarsi su quello che non si è potuto fare prima. Sognare, per esempio. Per uno che ha realizzato da subito tutti i propri sogni, sognare è un lusso. Mi è sempre piaciuto, sin da ragazzino. Forse è così per tutti, non lo so. Sicuramente lo fu per me. All'inizio volevo essere un pilota, ma servono troppi soldi per quello sport. E poi ci volevano le attitudini. E le mie attitudini mi portavano altrove, fra due pali. Sempre lì. Era qualcosa più di una predisposizione. Era un modo di vivere. A quattro anni mi buttavo dappertutto a prendere la palla. Quello era il mio destino. E adesso che il mio destino si è compiuto, restano i sogni. Anzi, i ricordi. Che sono i sogni dei grandi.
Mi chiamo Dino. Che nel mio caso non è diminutivo di nulla. È proprio il mio nome così com'è stato registrato all'anagrafe. Due sillabe. Dino, un suono breve, semplice, diretto.
Mia sorella, invece, si chiama Ameris. Che razza di nome è Ameris? Credo che esista, forse, un' Amneris in un'opera lirica, nell'Aida, di più non saprei dire; ma di Ameris, in vita mia, ho conosciuto solo mia sorella. Ameris e Dino, due nomi l'uno l'opposto dell'altro. Li ha scelti entrambi Mario, mio padre. E quando gliene chiedevano la ragione, lui diceva che gli piaceva come suonavano, tutto qui.
Abitavamo in una casa costruita su tre piani, come si faceva una volta in campagna: al piano terra, la cucina con il camino, dove si svolgeva la vita quotidiana; al primo piano le stanze da letto e, sopra, il granaio. Un giorno, avrò avuto una decina d'anni, salii fin lassù. Avevo visto un nido di rondini sotto il tetto. Ero piccolino di statura e magrolino. Molti anni dopo sarei diventato un atleta, ma allora ero solo un ragazzino con i pantaloni corti e un bisogno disperato di prendere qualche chilo. Però irrequieto e agile. Insomma, avevo visto questo nido di rondini sotto il tetto del granaio e mi arrampicai per buttarlo giù con un bastoncino.
L'operazione risultò più complessa di quanto avessi previsto. Mi ero dovuto sedere sul bordo della finestra, con le gambe all'interno della casa, il busto tutto fuori, sospeso nel vuoto, e le braccia allungate verso gli uccellini che cominciavano a innervosirsi. Proprio in quel momento, Mario, dal cortile, mi vide. Ero concentrato su quel nido, quindi non mi ero accorto della sua presenza, eppure ricordo ancora oggi nitidamente di aver sentito, di colpo, il peso insostenibile del suo sguardo addosso. Ebbi appena il tempo di rendermene conto e di voltarmi, che sentii le sue parole: «Tu non capisci niente».
Non stava urlando come probabilmente avrebbe fatto il 90 per cento dei genitori che ho conosciuto in vita mia. Parlava calmo. Mi girai verso di lui. Lo vidi fermo come un albero secolare al centro del cortile. Penso che chiunque altro al posto suo sarebbe morto d'infarto vedendo il proprio figlio sospeso a dieci metri d'altezza con un bastoncino in mano. Lui nemmeno alzò la voce.
«Se ti sporgi così, cadi. È meglio che ti siedi con le gambe a cavallo della finestra, una dentro e una fuori, strette, a tenerti saldo.»
Solo questo, mi disse, con una serietà che non ammetteva repliche e una chiarezza da bugiardino. Non mi vietò di fare quello che stavo facendo, non interferì con il mio gioco. Si limitò a dire ciò che riteneva essenziale in quel momento, facendomi capire che stavo rischiando la vita, senza melodrammi o scenate, senza lezioni o chiacchiere. Voleva che capissi che ogni cosa va fatta in
un determinato modo, che è meglio riflettere prima di agire, e saper prevedere i rischi delle proprie azioni. Be', l'ho capito così bene che ancora oggi, a sessant'anni di distanza, mi ricordo ogni dettaglio di quella mattina, persino le sensazioni. E per tutta la mia vita quelle immagini sono state lì, presenti, in ogni momento.
Non ho mai più voluto mettere i guanti, nemmeno per scherzo. Ricordo che a Torino, con alcuni amici, avevamo creato una squadretta. Avevo appena smesso di fare il calciatore. Organizzavamo delle partite, di tanto in tanto, e io non giocavo mai da portiere. Né gli altri, per fortuna, me lo chiedevano. Giocavo centromediano, «centrale» come si dice adesso. E me la cavavo anche. Ne avevo visti parecchi... Avevo giocato fino a 41 anni. Basta. In porta non ci potevo stare più. Non potevo profanare il ruolo. In porta, o si gioca come si deve o non si gioca.
Ho sempre giocato per me stesso. Per ambizione e per narcisismo. Andavo in campo e m'inebriava il gusto di sapermi lì, isolato in quella porta, da solo. Poi un giorno è finita. E, quando è finita, mi sono accorto che c'era almeno un altro motivo per cui mi piaceva quello che facevo: il profumo dell'erba.
Solo i portieri sanno che questa non è una frase retorica. Perché solo i portieri sanno cosa significa davvero il profumo dell'erba. Gli altri calciatori non ne hanno idea. Perché loro sull'erba corrono, al massimo ogni tanto scivolano oppure, oggi, si rotolano un po'.
Ma il portiere no. Il portiere ci lavora con l'erba. E praticamente ogni suo gesto, ogni suo intervento finisce sempre allo stesso modo, con il naso dentro l'erba. E così, piano piano, quell'odore vegetale tanto intenso, pulito e infantile si stratifica sopra tutte le altre sensazioni, le modifica geneticamente; l'eccitazione dell'adrenalina, le nevrosi della paura, gli spasimi di dolore avranno per me sempre quell'odore. E allo stesso modo l'erba vorrà sempre dire eccitazione, paura e dolore.
Da quando mi sono sposato, l'estate sono sempre andato al mare a Punta Ala, in Toscana. Per mezzo secolo, sempre lì. La vita di spiaggia non mi piace, resto poco, e sempre sotto l'ombrellone, con un libro o un giornale. Ma leggo e non leggo, faccio finta. Di solito, in realtà da dietro il giornale osservo i gruppetti di mamme che chiacchierano tra loro, ferme dove l'acqua arriva a mezza gamba, e non guardano i figli. Siccome so che ci vuole meno di un momento perché uno di loro cada e beva una boccata d'acqua e rischi grosso, io sto attento al posto loro. Controllo. Devo sempre osservare e poter prevedere quello che può succedere. In fondo è ciò che ho fatto per tutta la carriera, anche da giocatore. Un buon portiere deve vedere e prevedere.
La prima cosa che si sarebbe detta di mio padre è che era un uomo silenzioso. Mi viene da sorridere oggi, perché è la stessa cosa che si è sempre detta di me, e fa effetto, a una certa età, specchiarsi nei padri e vedersi identici a loro, dopo tanto tempo, dopo tante cose successe, dopo tante battaglie.
Io ho sempre pensato che fosse una persona che dava alle parole il giusto valore. Né troppo né poco. Non si parla tanto per aprire bocca, non s'inganna la vita con gli aggettivi. Ma questo non vuol dire essere silenziosi, taciturni, orsi. Vuol dire solamente sapere quando parlare, cosa dire e, soprattutto, come dirlo.
Non si parla tanto per aprire bocca, non s'inganna la vita con gli aggettivi. Ma questo non vuol dire essere silenziosi, taciturni, orsi. Vuol dire solamente sapere quando parlare, cosa dire e, soprattutto, come dirlo.
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