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Franco Di Mare
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Frasi di Franco Di Mare
Franco Di Mare
Giornalista e conduttore tv italiano
28 luglio 1955 - 17 maggio 2024
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C'è un proverbio cinese che dice che la verità viene sempre dopo il però. Antica saggezza orientale. Perché se ci fate caso è vero.
Quando vogliamo dire qualcosa che è in disaccordo con quello che ha appena detto il nostro interlocutore, spesso, per una forma di cortesia, anticipiamo il nostro pensiero con una specie di formula di rito che suona più o meno così: sono d'accordo con quello che dici, però... e, subito dopo il però, diciamo quello che pensiamo per davvero, che in genere - fateci caso, vi accorgerete che è vero - è l'esatto opposto di quello che sostiene il nostro interlocutore.
Questa forma di cortesia sociale si trasforma in aperta ipocrisia quando, dietro la formuletta politicamente corretta, nascondiamo un pensiero del quale sotto sotto ci vergogniamo e che non siamo in grado di sostenere apertamente. Quante volte abbiamo detto o sentito dire frasi del tipo: io non sono intollerante, però gli scocciatori proprio non li sopporto. Ecco, questa frase nasconde (male) la sua vera essenza. Perché privata della sua inutile mediazione vuol dire: "Io sono una persona intollerante".
Dire "Sono contrario alla pena di morte, però in certi casi..." in realtà significa dire "Sono favorevole alla pena di morte".
Certe scelte di campo, soprattutto quelle che riguardano le questioni di principio, non sono negoziabili, non ci può essere mediazione, non ci sono aree grigie, nelle quale possiamo contrattare e stiracchiare i principi secondo le nostre convenienze.
In realtà quella dei contenitori è una forma di giornalismo popolare che avvicina la gente, è un qualche cosa che ti da la possibilità di approfondire degli argomenti che da inviato sei costretto a raccontare in 90 secondi.
[...]
Potrebbe essere che un giorno ritorni a fare l'inviato, però c'è un'epoca per tutto ed ora è il momento per me di fare il conduttore.
Malina era nel lettino insieme ad altri due piccoli. A un tratto uno dei due, incuriosito dalla nuova presenza. ruotò su sé stesso per guardare meglio verso la porta e, nel farlo, le piazzò una gomitata in pieno viso così forte che Malina finì seduta sul suo pannolone, al centro del lettino. Fece una strana smorfia, si fregò il naso con entrambe le mani, poi scrollò la testa, come a voler cacciare via quel fastidio e, gattonando fino alla grata del lettino, si rimise in piedi per riprendere il suo gioco preferito: saltellare e sbatacchiare il bordo della culla. Tutto era avvenuto senza un lamento, senza una lacrima.
- "Che strano, non ha pianto" commentò Marco ad alta voce.
La direttrice lo guardò e disse: "Vede, per i bambini il pianto è una prima forma di linguaggio. Spesso è un campanello d'allarme, altre volte la segnalazione di un bisogno, in altri casi ancora di una semplice richiesta di attenzione. Da quando è iniziata la guerra il nostro personale si è ridotto moltissimo, purtroppo. Facciamo quello che possiamo, ma i bambini restano soli per la maggior parte della giornata. Non ci hanno messo molto a capire che è inutile piangere per richiamare l'attenzione, perché tanto non c'è nessuno che possa correre a consolarli. Le lacrime servono poco a Sarajevo. Lo hanno imparato anche i bambini".
[...]
Che città era diventata quella, capace perfino di sottrarre le lacrime ai bambini?
Ricordo che quando ho iniziato questo lavoro, nel 1980, si diceva che la situazione fosse in crisi e che le cose non andavano, ogni anno in realtà ce n'è una nuova.
Eppure a volte per capire era sufficiente saper ascoltare. Si ricordò di quella volta che era riuscito a descrivere le conseguenze che il terremoto dell'Irpinia dell'80 aveva avuto sull'equilibrio di quella comunità grazie a una semplice intervista. Era bastato l'incontro con un uomo che si aggirava su una collina di macerie a Sant'Angelo dei Lombardi e raccoglieva piccole cose intorno a sé, oggetti all'apparenza privi di importanza: un fermaglio, un posacenere, una penna. Cercava con pazienza tra le pietre e le macerie e, appena qualcosa attirava la sua attenzione, si chinava a prenderla con delicatezza, come si fa con le more nei cespugli, e la riponeva in una scatola di scarpe vuota. Marco si avvicinò e gli chiese dov'era la sua casa e in che condizioni fosse.
– "È tutta qui. Ci stiamo camminando sopra." rispose l'uomo, senza scomporsi.
– "E la sua famiglia?"
– "Stiamo camminando sopra anche a quella. Mia moglie è proprio qui sotto" disse indicando la punta delle scarpe. "Qui siamo sopra la cucina. L'avevo lasciata lì ed ero andato a prendere la legna per il cammino quando è arrivata la scossa. I miei due bambini sono più in là. In quel punto, vede? Quando sono uscito stavano giocando nella loro cameretta. Devono essere ancora lì. E ora, se vuole scusarmi..." e andò via, lungo quel cimitero di macerie, cercando frammenti della sua vita perduta."
- "Buongiorno signore, ci scusi se la disturbiamo. Possiamo chiederle cosa sta facendo qui?" A suo modo aveva un'aria elegante. Certo, l'abito era sdrucito, la camicia stazzonata, la cravatta sembrava aver visto troppe feste di famiglia, testimone di tempi in cui la gente poteva ancora concedersi il lusso di festeggiare
[...]
.
- "Aspetto il tram" rispose cortese al microfono del giornalista.
- "Guardi che il tram non passa più. Hanno interrotto tutte le corse per Marsala Tita dal 6 aprile. Ormai tre mesi fa. È per via dei cecchini...".
- "Lo so bene giovanotto, per chi mi ha preso? Vivo anch'io a Sarajevo, leggo il giornale e guardo la tv, quando c'è l'energia elettrica."
- "E allora, mi scusi, perché resta qui ad aspettare il tram?"
- "Perché passerà. Sono certo che prima o poi passerà di nuovo. E quel giorno mi troverà qui alla fermata, ad attenderlo."
- "Ma viene qui spesso?"
- "Quasi tutti i giorni, da tre mesi."
Fare l'inviato di guerra è il mestiere probabilmente più straordinario, disperato, difficile e magnifico che esista. Si tratta di raccontare la storia mentre la storia accade. Quando lo facevo io, vent'anni fa, la storia in qualche maniera aveva una forma di rispetto, per chi la raccontava. Oggi non c'è più. Noi potevamo passare da una parte all'altra del conflitto portando la pelle a casa – spesso, non sempre e non tutti, purtroppo. Non eravamo noi gli obiettivi, noi eravamo i testimoni. Adesso tutto è diverso, i giornalisti sono diretti obiettivi. Pensate a quello che accade in Siria, in Afghanistan o in Iraq. Cercano i giornalisti per farne martirio, per ucciderli in diretta davanti all'occhio dei telefonini per poi mettere sul web la loro uccisione. Oggi non è più possibile fare il giornalismo che ho fatto io, è morto.
Io adoro Elisa Isoardi, è una mia cara amica. Ha iniziato a lavorare con me, ora è diventata molto più brava di me. Sono molto felice di lavorare con lei, l'unico problema che ho con Elisa è che è alta 1,82 senza tacchi.
L'attuale momento di crisi può essere raccontato sotto vari aspetti, e questo è un primo elemento da valutare. Ma un tema così ampio lo si può affrontare in modi diversi anche in base alle fasce orarie: al mattino presto la tv è vista dal ceto produttivo del Paese, dunque a quell'ora si dà un taglio più d'attualità alla trasmissione.
Il calabrone ha il corpo troppo grosso in rapporto all'estensione delle ali, che sono invece piccole ed esili. Non ha alcuna aerodinamicità, è una specie di prugna, grossa e pesante. Insomma, non potrebbe volare, essendo una violazione vivente di tutti i principi del volo. Ma lui nonlo sa, e vola lo stesso, ignaro e felice. Noi eravamo quattro figli. Mio padre faceva l'operaio. Ogni fine mese si metteva le mani nei capelli perché non riusciva a stare dietro a tutte le rate. I soldi non bastavano mai e noi figli andavamo in giro con un paio di scarpe per l'inverno e uno per l'estate. Insomma, non c'erano certo motivi per stare allegri.
Ma mio padre evidentemente lo ignorava. E ogni mattina, quando si faceva la barba, cantava.
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