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Gigi Riva
Gigi Riva
Frasi di Gigi Riva - pagina 2
Gigi Riva
Calciatore italiano
7 novembre 1944 - 22 gennaio 2024
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Non seguo più il calcio. Cagliari a parte, mi piace solo la Nazionale: ora, dopo il buio, si è rimessa a posto.
[Ha digerito il Pallone d'oro dato a Rivera e non a lei?]
No, non ancora. Mi era stato promesso che l'anno dopo sarebbe toccato a me e poi invece mi sono fatto male.
[Se rinascesse rifarebbe il calciatore?]
Sì, sperando che il Padreterno mi dia le stesse doti che avevo: saper giocare al calcio, divertirmi in campo, sognare di fare gol prima di una partita e poi segnare per davvero.
Con la scomparsa di mio padre finì bruscamente la stagione dell'infanzia. E come se non bastasse cominciarono pure, da subito, gli anni di galera. Li chiamo così per due ragioni. La prima è che pur trattandosi di orfanotrofi, o istituti di assistenza che dir si voglia, erano in pratica delle prigioni per bambini indigenti, cui le famiglie o quel che ne restava non erano in grado di provvedere. La seconda è che scappai tante di quelle volte che ne ho perso il conto, pur sapendo bene dopo la prima volta che mi avrebbero ripreso.
Lo 0-0 che oggi nel nostro calcio esce una volta ogni morte di papa, negli anni Sessanta-Settanta era routine.
Vado per gli ottanta. L'ultima partita l'ho giocata che non ne avevo trentadue, e sarà anche vero che dura un attimo la gloria ma poi portarsela dentro per tutto questo tempo senza più la possibilità di rinverdirla è durissima. Anche un po' crudele.
Ne ho di tutti colori, ma per me la maglia più bella resta quella bianca, pulita, senza sponsor, dello scudetto.
Quando negli ultimi tempi facevo fatica perché le due fratture avevano lasciato il segno, e sentivo dentro di me che la carriera non sarebbe durata a lungo, Brera scrisse più o meno che gli eroi meriterebbero di morire giovani, nel pieno della loro gloria, e andrebbero trasportati nell'Olimpo su un carro di fuoco. Leggere quelle righe, rileggerle, e lasciarsi andare agli scongiuri fu persino banale, quanto credo inevitabile.
L'ultima partita l'ho giocata che non avevo trentadue anni, e sarà anche vero che dura un attimo la gloria ma poi bisogna accontentarsi dei ricordi.
Avevo incominciato nel campo della parrocchia di San Primo, a cinquanta metri da casa. Attraversavo la strada e giocavo: se c'erano gli altri bene, sennò da solo. Era l'epoca dei tornei estivi, in notturna, e con i ragazzi dell'oratorio, sotto la supervisione di don Piero, mettemmo insieme una squadretta che si chiamava Piccolo Brasile. Io ero il più giovane, e con Alberto, Giuseppe, Pinpin vincevamo un po' da ogni parte e arrivavano tifosi da tutta Leggiuno a sostenerci.
AI di là di noi giocatori in erba, il personaggio chiave era Giuannun, il fratello più grande che non ho mai avuto e non ho mai più dimenticato. Un armadio, una forza della natura. Faceva l'imbianchino, quando ancora non lavoravo gli davo una mano col pennello e lui a fine settimana mi dava la mancia. Ma soprattutto mi portava sulla sua moto da un campo all'altro, da un paese all'altro perché a un certo punto arrivai a giocare tre partite per sera, magari entrando nel secondo tempo perché non si arrivava in orario per l'inizio.
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