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Valerio Massimo Manfredi
Valerio Massimo Manfredi
Frasi di Valerio Massimo Manfredi - pagina 3
Valerio Massimo Manfredi
Scrittore, storico e archeologo...
8 marzo 1943
Frasi in elenco
:
62
‐
Pagina:
3
di
7
Puoi trovare le
frasi di Valerio Massimo Manfredi
anche in questi temi:
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Guerra
Aquile
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Fabrizio Castellani arrivò a Volterra una sera di ottobre a bordo della sua Fiat Punto, con un paio di valigie e la speranza di vincere un posto da ricercatore all'Università di Siena. Un amico di suo padre gli aveva trovato un alloggio a buon mercato in una fattoria della Val d'Era a non molta distanza dalla città. Il colono se n'era andato qualche tempo prima, il podere era sfritto e lo sarebbe rimasto ancora a lungo perché il padrone pensava di ristrutturare il fabbricato e di venderlo a uno dei tanti inglesi innamorati della Toscana.
La casa era cresciuta in varie epoche successive attorno a un nucleo di base risalente al XIII secolo e aveva una bella corte nella parte posteriore, con ricoveri per gli attrezzi a pianterreno e fienili al piano superiore. La parte antica era fatta di sasso e coperta con vecchi coppi macchiati, a nord, di licheni gialli e verdi, quella più recente di mattoni. Il terreno circostante, coltivato nel lato esposto a sud, allineava una decina di filari di grandi ulivi nodosi pieni di frutti e altrettanti di una vite bassa, carica di grappoli violacei con le foglie che cominciavano a virare dal verde verso il rosso brillante dell'autunno. Un muretto di pietre a secco correva tutto attorno ma appariva in più punti crollato e bisognoso di restauro. Oltre si estendeva un bosco di querce che saliva fino al crinale del monte spandendo una macchia di un vivido colore ocra, interrotta qua e là dal rosso e dal giallo degli aceri montani. Un bosso secolare ornava l'ingresso sulla destra e un paio di cipressi svettavano dall'altra parte superando in altezza il tetto della casa.
La colonna avanzava lentamente nel bagliore del cielo e delle sabbie; l'oasi di Cydamus non era più che un ricordo, con le sue acque limpide e con i suoi datteri freschi. Da molti giorni l'avevano lasciata, non senza timore, ma l'orizzonte meridionale continuava ad allontanarsi, vuoto, falso e sfuggente come i miraggi che danzavano tra le dune.
In testa, sul suo cavallo, il centurione Fulvio Macro teneva eretta la schiena e diritte le spalle né si toglieva mai l'elmo arroventato dal sole, per dare agli uomini l'esempio della disciplina.
Era originario di Ferentino e veniva da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Se ne stava a marcire da mesi con il suo reparto in un ridotto della costa sirtica fra le allucinazioni della malaria, bevendo vino inacidito e sognando invano Alessandria e le sue delizie, quando improvvisamente il Governatore della provincia lo aveva convocato a Cirene e gli aveva affidato l'incarico di attraversare il deserto con una trentina di legionari, un geografo greco, un aruspice etrusco e due guide mauritane.
Una quercia non può generare un giunco e un'aquila non può dare alla luce un corvo.
[Diomede]
I poveri sono uguali in tutto il mondo.
[Tenefo, hittita]
Troia bruciava ancora in un rogo immane, dardi di fuoco piovevano dal cielo con strepito assordante, ombre di guerrieri caduti ancora urlavano strazio tra il fumo e le fiamme, spettri inquieti e senza pace alle soglie dell'Hades. E sarebbe bruciata per giorni e notti fino a ridursi in cenere. Il bagliore delle fiamme m'indicava la via.
Due uomini per ognuna delle mie navi raggiunsero la riva lottando contro la violenta risacca e le ancorarono a terra piantando saldi picchetti di quercia. Dissi loro di asoettarmi e di non allontanarsi per alcun motivo e m'incamminai in direzione della città. Ancora mi chiedo perché non mi fermai per la notte a dormire con i miei uomini, perché tornai sul luogo dell'insidia e del massacro, e non trovo risposta.
Vidi dall'alto le navi di Agamemnon e degli altri re rimasti con lui ancorate di poppa e con la prua al mare. Anche loro si stavano preparando alla partenza. Forse si erano convinti che non c'erano sacrifici ed ecatombi che potessero riparare gli orrori commessi, ripagare del sangue di tanti inermi innocenti. Ritrovai la strada, passai tra gli stipiti bruciati delle porti Skaiai e salii verso la rocca. In tempo per assistere a un evento sconvolgente. Il cavallo che avevo costruito crollava in quell'istante divorato dalle fiamme. Solo ora lo avevano raggiunto, isolato. E alto com'era, a dominare la città e la reggia, si accasciò a terra in un vortice di scintille e di fumo bianco. La testa fu l'ultima a dissolversi nel rogo.
Efira, Grecia nordoccidentale, 16 novembre 1973, ore 20
Tremarono improvvisamente le cime degli abeti, le foglie secche delle querce e dei platani ebbero un brivido ma non c'era un soffio di vento e il mare lontano era freddo e immoto come una lastra di ardesia.
Parve al vecchio studioso che tutto tacesse d'un tratto, il pigolio degli uccelli e l'abbaiare dei cani e anche la voce del fiume, come se le acque lambissero le sponde e le pietre dell'alveo senza toccarle, come se la terra fosse pervasa da un oscuro, subitaneo tremore.
Si passò una mano tra i candidi capelli, si toccò la fronte e cercò dentro di sé il coraggio di affrontare, dopo trent'anni di caparbia, infaticabile ricerca, la vista della meta.
Nessuno avrebbe potuto dividere con lui quel momento. I suoi operai, Yorgo e Stathis, già si allontanavano dopo aver riposto gli attrezzi, con le mani in tasca e il bavero rialzato e il rumore delle loro suole sulla ghiaia della strada era il solo nella sera.
Un lampo illuminò a giorno la strada luccicante di pioggia e il volto tumefatto del maestro. Un tuono esplose in mezzo al cielo ma lui non si scosse. Strinse al petto la sua borsa e disse, scandendo le parole con enfasi: «Il suo nome era Dionisio, Dionisio di Siracusa. Ma il mondo intero lo chiamò... il tiranno!»
Sappiamo esattamente dove si trovava il Mausoleo grazie ad alcuni scavi che vennero effettuati verso la metà dell'Ottocento ad Alicarnasso. Era a destra del teatro e di fronte alla baia. Una simile posizione ha un significato importante che si collega con la tradizione delle colonie greche, dove, al centro della città, sorgeva il monumento funerario del fondatore. Questi era nominato dall'oracolo e quindi aveva un carisma particolare, una sorta di sacralità.
«Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce!»
«Tu sai benissimo chi sono, bestia, schiavo! Credi di sapere più di me? Quante volte ti ho cacciato e ho guardato nei tuoi occhi di porco! Altri tuoi compagni ho chiuso nelle budella di animali immondi perché fossero defecati per miglia, tra il lezzo degli escrementi!»
Nessuno udì queste parole venire dal patibolo. I lineamenti del condannato erano indecifrabili, gli occhi pieni di dolore, una sola lacrima tracciata di sangue dalla fronte dell'angolo della bocca. Spine, membra scorticate dal flagello. Silenzio sulla rupe, pesante.
Il tempo passava mentre il dolore era sempre più straziante, tra grida umane e demoniache. Il vento soffiava sempre più forte da settentrione. Le imprecazioni dei soldati ai dadi: «Otto! Sei! Ho vinto».
«Hai perso! Che hai vinto? Quello straccio?»
Gli amici dileguati. Terrore, angoscia, dolore lancinante nei polsi, nelle caviglie. Un grido dal patibolo: «Perdonali. Padre!». Voce rauca dal tronco traverso e pianto di donne. Una sola implorò perdono per i Goyim.
«No!» gridò un'altra voce, quella di un uomo chiamato Giuseppe di Arimatea... E altre tremarono fra la morte e l'odio.
Molto silenzio seguì, poi pianto di madre. Il condannato le donò un figlio differente: il giovane Giovanni, il suo discepolo prediletto.
«Donna, ecco tuo figlio e tu, ecco tua madre!»
Ma la Madre disobbedì al figlio, si accostò al patibolo senza che i legionari la fermassero, gli abbracciò le ginocchia e appoggiò la guancia scossa dai singulti sulla sua coscia. Un'onda di ricordi. L'aveva allattato, cresciuto, educato.
IESUS NAZARENUS RED IUDAEORUM
Il re si rimise in viaggio attraverso il deserto sul finire della primavera, per un'altra via che dall'oasi di Amon raggiungeva direttamente le sponde del Nilo nei pressi di Menfi. Cavalcava da solo per ore e ore in groppa al suo baio sarmatico, mentre Bucefalo gli galoppava a fianco senza finimenti e senza briglie. Da quando Alessandro si era reso conto di quanto lunga fosse ancora la strada che avrebbe dovuto percorrere, cercava di risparmiare al suo cavallo tutte le fatiche inutili, come se volesse prolungargli il vigore dell'età giovanile il più possibile.
Ci vollero tre settimane di marcia sotto il sole cocente e fu necessario affrontare ancora durissime privazioni prima di vedere la sottile linea verde che annunciava le fertili sponde del Nilo, ma il re sembrava non sentire né la stanchezza né la fame né la sete, assorto nei suoi pensieri o nei suoi ricordi.
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