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Valerio Massimo Manfredi
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Frasi di Valerio Massimo Manfredi - pagina 2
Valerio Massimo Manfredi
Scrittore, storico e archeologo...
8 marzo 1943
Frasi in elenco
:
62
‐
Pagina:
2
di
7
Puoi trovare le
frasi di Valerio Massimo Manfredi
anche in questi temi:
Destino
Sognatori
Mondo
Povertà
Guerra
Aquile
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Conserva questo segreto nel tuo cuore finché non verrà il momento in cui la natura di tuo figlio si manifesterà appieno. Allora sii pronta a tutto, anche a perderlo, perché qualunque cosa tu faccia non riuscirai a impedire che si compia il suo destino, che la sua fama si estenda sino ai confini del mondo. (Sacerdote dell'oracolo di Delfi a Olympias)
Essere greco, Alessandro, è l'unico modo di vivere degno di un essere umano. (Aristotele)
Non è lui.
[...]
Non è Alessandro. Lisippo sta modellando il giovane dio che immagina davanti a sé, un dio che ha gli occhi, le labbra, il naso, i capelli di Alessandro, ma che è altro, è di più e di meno, allo stesso tempo. (Aristotele)
Dertona, campo della Legione Nova Invicta,
Anno Domini 476, ab Urbe condita 1229.
La luce cominciò a penetrare la nube che copriva la valle, e i cipressi si ersero d'un tratto come sentinelle sul crinale dei colli. Un'ombra curva sotto un fascio di sterpi apparve al limitare di un campo di stoppie e subito si dileguò come un sogno. Il canto di un gallo risuonò in quel momento da un casolare lontano annunciando un giorno grigio e livido, poi si spense come se la nebbia lo avesse inghiottito. Solo voci d'uomini attraversavano la bruma
[1]
.
«Fa freddo.»
«E questa umidità penetra fin dentro le ossa.»
«È la nebbia. Non ho mai bisto in vita mia una nebbia così fitta.»
«Già. E non hanno ancora portato il rancio.»
«Forse non c'è rimasto più nulla da mangiare.»
«E nemmeno un po' di vino per riscaldarci.»
«E non riceviamo la paga da tre mesi.»
«Io non ne posso più, non sopporto più questa situazione. Imperatori che cambiano quasi ogni anno, i barbari in tutti i posti di comando e ora l'assurdità più grande di tutte: un moccioso sul trono dei Cesari, Romolo Augusto! Un ragazzino di tredici anni che non ha nemmeno la forza di reggere lo scettro dovrebbe reggere le sorti del mondo, almeno nell'Occidente. No, davvero, io la faccio finita, me ne vado. Alla prima occasione lascio l'esercito e me ne vado in qualche isola a pascolare capre o a coltivarmi un pezzo di terra. Non so voi, ma io ho deciso.»
Mi chiamarono Odysseo perché così aveva stabilito mio nonnno Autolykos, re di Acarnania, giunto in visita al palazzo un mese dopo la mia nascita. E presto mi resi conto che gli altri avevano un padre e io non l'avevo. La sera, prima di addormentarmi, chiedevo alla nutrice: «Mai, dov'è mio padre?».
«È partito con altri re guerrieri alla ricerca di un tesoro in un luogo lontano.»
«E quando torna?»
«Non lo so. Non lo sa nessuno. Quando si parte per mare non si sa quando torna. Ci sono le tempeste, i pirati, gli scogli. Può succedere che la nave vada distrutta e che qualcuno si salvi nuotando verso terra. Ma poi deve aspettare che passi un'altra nave e possono trascorrere mesi, anni. Se poi si ferma un vascello pirata, li prende e li vende come schiavi nel porto successivo. Quella del marinaio è una vita rischiosa. Il mare nasconde mostri terribili e creature misteriose che vivono negli abissi e salgono alla superficie nelle notti senza luna... Ma adesso dormi, piccolo.»
«Perché è andato a cercare un tesoro?»
«Perché ci sono antati tutti i guerrieri più forti di Achaja. Poteva tuo padre mancare? Un giorno i cantori racconteranno questa storia e i nomi degli eroi che vi hanno preso parte saranno ricordati in eterno.»
Si fece silenzio nella sala, tutti guardavano l'ospite, il naufrago abbandonato dal mare fra gli scogli e la rena. Le sue mani erano ancora ferite e graffiate, i suoi occhi arrossati e i capelli secchi come l'erba al finire dell'estate. Ma la sua voce era bella, d'un timbro fondo e sonoro e, quando narrava, il suo volto si trasfigurava, gli occhi si accendevano di una febbre misteriosa, sembravano riflettere un fuoco interno e nascosto, più ardente che le fiamme del focolare.
Capivamo la sua lingua perché noi abitavamo vicino al paese degli Achei e un tempo avevamo con loro rapporti commerciali ma, benché io sia un cantore fra la mia gente e conosca storie bellissime e lunghe tanto da occupare una notte intera d'inverno, quando gli uomini hanno piacere di starsene su a bere vino e ad ascoltare fino a tardi, tuttavia non avevo mai udito nella mia vita una storia più bella e terribile; la storia della fine di un'era, del tramonto degli eroi...
Triste quindi, soprattutto per un cantore quale io sono, perché se gli eroi scompaiono anche i poeti muoiono, non avendo più materia per il loro canto.
Quale ne l'arnanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani.
«Mi sono venuti in mente quei versi dell'Inferno appena ho visto quel relitto, non so perché, anzi, lo so benissimo. Siamo a Venezia, o in ogni caso non molto distante, sul fondo della laguna a poche spanne dalla superficie c'è una nave risalente al quattordicesimo secolo, lunga una trentina di metri, che gli archeologi stanno liberando dal fango che la ricopre, e il fasciame comincia a riapparire... Uno spettacolo, ti assicuro, una tecnica costruttiva formidabile, una perfezione nelle connessure che faceva pensare a un violino, non allo scafo di una galea. Stavano liberando la scassa dell'albero: c'era ancora la stoppa tutto attorno e le zeppe per fissarlo...»
Lucio Masera si accalorava mentre descriveva ciò che aveva visto durante la sua immersione nelle acque non proprio limpide di San Marco in Boccalama e il suo amico Rocco Barrese lo ascoltava con grande interesse. Barrese era un filologo romanzo che insegnava letteratura letterale a Ca' Foscari, e che aveva pubblicato un importante studio sulle fasi compositive della Divina Commedia, suscitando anche una certa polemica negli ambienti degli specialisti. L'ipotesi di Barrese poco era che Dante fosse tornato sul suo testo fino all'ultimo momento e che certi ripensamenti o certe aggiunte erano state fatte addirittura poco prima della sua morte e non solo nella terza cantica del Paradiso, ma in tutto il poema. Barrese era inoltre un linguista poliglotta di sterminata dottrina, capace di distinguere a prima vista, o al primo ascolto, impercettibili sfumature semantiche e fonetiche, sia nel campo delle lingue che in quello dei numerosi dialetti che padroneggiava perfettamente. Il suo studio al secondo piano di una casa del Ghetto vecchio era talmente ingombro di libri che a malapena si riusciva a passare da un ambiente all'altro e sulla scrivania ce n'erano almeno una mezza dozzina di aperti, tra i quali la biografia di Dante del Petrocchi.
I quattro Magi salivano a passi lenti i sentieri che conducevano alla sommità della Montagna della luce: giungevano dai quattro punti dell'orizzonte portando ognuno una bisaccia con i legni profumati destinati al rito del fuoco.
Il Mago dell'aurora aveva un mantello di seta rosa sfumato in azzurro e calzava sandali di pelle di cervo. Il Mago del tramonto portava una sopravveste cremisi screziata d'oro, e gli pendeva dalle spalle una lunga stola di bisso ricamato con gli stessi colori.
Il Mago del mezzogiorno indossava una tunica di porpora operata con spighe d'oro, e calzava babbucce di pelle di serpente. L'ultimo di loro, il Mago della notte, era vestito di lana nera, intessuta dal vello di agnelli non nati, tempestata di stelle d'argento.
Due ragazzi correvano nel bosco.
La luce brillava nei loro capelli a ogni passaggio da ombra a ombra, ogni volta che ritrovavano il sole, barbagli d'oro. Volavano leggeri come il vento che muoveva le fronde degli alberi e come il profumo della resina che passava fra gli abeti giganti. Non avevano esitazioni, non rallentavano in vista di ostacoli, né all'apparizione improvvisa delle grandi creature della foresta. Ogni loro movimento era pura gioia di vivere.
I loro nomi erano Wurf e Armin, nobile la stirpe.
Giunsero in cima al colle dell'eco nello stesso momento in cui il sole illuminava la grande radura.
Armin si fermò: «Ascolta».
Anche Wulf si fermò: «Che cosa?».
«Il martello, il martello di Thor!»
Wulf tese l'orecchio: si udivano rombi profondi di tuono e a ogni colpo si accompagnava il rumore di acqua scrosciante e la sua eco interminabile.
«Vuoi farmi paura?»
«No. Non ancora.»
«Da dove viene?»
«Da destra, dietro il bosco di querce.»
«Andiamo?»
«Sì, ma con prudenza. Non è il martello di Thor.»
«Che cos'è, allora?»
«Te l'avevo detto che ti avrei mostrato la strada che non si ferma mai.»
Fabrizio Castellani arrivò a Volterra una sera di ottobre a bordo della sua Fiat Punto, con un paio di valigie e la speranza di vincere un posto da ricercatore all'Università di Siena. Un amico di suo padre gli aveva trovato un alloggio a buon mercato in una fattoria della Val d'Era a non molta distanza dalla città. Il colono se n'era andato qualche tempo prima, il podere era sfritto e lo sarebbe rimasto ancora a lungo perché il padrone pensava di ristrutturare il fabbricato e di venderlo a uno dei tanti inglesi innamorati della Toscana.
La casa era cresciuta in varie epoche successive attorno a un nucleo di base risalente al XIII secolo e aveva una bella corte nella parte posteriore, con ricoveri per gli attrezzi a pianterreno e fienili al piano superiore. La parte antica era fatta di sasso e coperta con vecchi coppi macchiati, a nord, di licheni gialli e verdi, quella più recente di mattoni. Il terreno circostante, coltivato nel lato esposto a sud, allineava una decina di filari di grandi ulivi nodosi pieni di frutti e altrettanti di una vite bassa, carica di grappoli violacei con le foglie che cominciavano a virare dal verde verso il rosso brillante dell'autunno. Un muretto di pietre a secco correva tutto attorno ma appariva in più punti crollato e bisognoso di restauro. Oltre si estendeva un bosco di querce che saliva fino al crinale del monte spandendo una macchia di un vivido colore ocra, interrotta qua e là dal rosso e dal giallo degli aceri montani. Un bosso secolare ornava l'ingresso sulla destra e un paio di cipressi svettavano dall'altra parte superando in altezza il tetto della casa.
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