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J. D. Vance
J. D. Vance
Frasi di J. D. Vance - pagina 2
J. D. Vance
Politico statunitense
2 agosto 1984
Frasi in elenco
:
22
‐
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3
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Se l'etnia è una faccia della medaglia, la geografia è la faccia opposta. Nel XVIII secolo, quando la prima ondata di immigrati scozzesi e irlandesi sbarcò nel Nuovo Mondo, la grande attrattiva ai loro occhi era costituita dai monti Appalachi.
Pur trattandosi di una regione sterminata che si estende dall'Alabama alla Georgia del Sud, e dall'Ohio ad alcune parti del Nord dello stato di New York, conserva una coesione culturale straordinaria. I miei familiari, che vengono dalle colline del Kentucky orientale, si autodefiniscono hillbilly, così come il musicista Hank Williams Jr. - nato in Louisiana e residente in Alabama - in uno dei suoi inni ai bianchi delle zone rurali, A Country Boy Can Survive. È stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell'America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è un luogo di infelicità.
Qui vi racconto la vera storia della mia vita, ed è la ragione per cui ho scritto questo libro. Voglio che la gente sappia cosa vuol dire arrivare quasi a perdersi, perché può succedere a tutti. Voglio che sappia come vivono i poveri e qual è l'impatto psicologico che produce la povertà spirituale e materiale sui loro figli. Voglio che capisca cos'ha rappresentato il sogno americano per me e la mia famiglia. Voglio che capisca in cosa consiste realmente il cosiddetto «ascensore sociale». E voglio che capisca una cosa che ho scoperto solo di recente: chi, come me, ha avuto la fortuna di realizzare il sogno americano, si porta dietro per sempre i fantasmi della vita che si è lasciato alle spalle.
C'è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per capire la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all'università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell'economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari.
Gli americani di origine scozzese e irlandese costituiscono uno dei gruppi più caratteristici della popolazione del nostro paese. Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentino la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture familiari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate» Questo radicamento culturale si accompagna a molte caratteristiche positive - estrema lealtà, dedizione totale alla famiglia e al paese - ma anche a molte caratteristiche negative. Non ci piacciono gli estranei e i diversi, anche se la differenza sta solo nel loro aspetto, nel loro modo di agire o, in particolare, nel loro modo di parlare. Per capirmi, dovete rendervi conto che sono veramente un hillbilly di origine scozzese e irlandese.
I problemi che ho visto nel deposito di piastrelle sono molto più profondi di quanto non spieghino i trend macroeconomici e la politica economica. Troppi giovani refrattari al lavoro. Posti di lavoro di qualità che rimangono scoperti. E un giovane che avrebbe tutte le ragioni per lavorare - una futura moglie da mantenere e un bebè in arrivo - butta via un lavoro sicuro che gli offre anche un'ottima assicurazione sanitaria. Peggio ancora, quando lo licenziano è convinto che gli abbiano fatto un torto. Questa è deresponsabilizzazione: la sensazione di non avere il controllo della propria vita e la tendenza a colpevolizzare tutti tranne sé stessi. È qualcosa che esula dal panorama economico complessivo dell'America contemporanea.
Questo libro non è uno studio accademico. Negli ultimi due anni William Julius Wilson, Charles Murray, Robert Putnam e Raj Chetty hanno scritto saggi convincenti e ben documentati in cui dimostravano che negli anni Settanta la mobilità sociale è crollata senza mai più risalire davvero, che alcune regioni hanno fatto molto peggio di altre (notizia sensazionale: gli Appalachi e la Rust Belt sono tra le più malmesse) e che molti dei fenomeni a cui ho assistito con i miei occhi sono comuni a tutta la società. Potrei contestare alcune delle loro conclusioni, ma hanno dimostrato inconfutabilmente che l'America ha un problema. Anche se userò dei dati, e se a volte mi affiderò agli studi accademici per asseverare le mie affermazioni, il mio scopo principale non è convincervi dell'esistenza di un problema conclamato. Il mio scopo principale è raccontarvi una storia vera che esemplifichi come si manifesta quel problema quando nasci con uno svantaggio sociale.
Non c'è dunque da sorprendersi se siamo dei gran pessimisti. Anzi, come rivelano i sondaggi, i proletari bianchi sono il gruppo sociale più pessimista d'America. Più pessimisti degli immigrati latinoamericani, molti dei quali vivono in condizioni di povertà assoluta. Più pessimisti dei neri, le cui prospettive materiali sono costantemente inferiori a quelle dei bianchi. Mentre la realtà giustifica una certa dose di cinismo, il fatto che gli hillbilly come me vedano più nero di tanti altri gruppi - alcuni dei quali decisamente più indigenti - indica che la nostra vita si è complicata.
Si è molto complicata. Siamo socialmente più isolati che mai, e trasmettiamo questo isolamento ai nostri figli. La nostra religione è cambiata: adesso è costruita intorno a chiese che straripano di retorica emotiva ma non forniscono il supporto sociale che permetterebbe ai ragazzi poveri di affermarsi nella vita. Molti di noi sono stati espulsi dalla forza lavoro o hanno deciso di non trasferirsi altrove per cercare nuove opportunità. I nostri uomini soffrono di una peculiare crisi di virilità: alcuni tratti specifici della nostra cultura ostacolano il successo in un mondo che sta cambiando rapidamente.
Quando si parla di pari opportunità non si possono ignorare questi casi. I premi Nobel dell'economia si preoccupano del declino del Midwest industriale e dello svuotamento del bacino principale di occupazione degli operai bianchi. Intendono dire che le industrie manifatturiere sono andate all'estero e che i lavori impiegatizi sono difficilmente accessibili per chi non ha frequentato l'università. È giusto, me ne preoccupo anch'io. Ma questo libro tratta un argomento diverso: racconta ciò che avviene nella vita delle persone reali quando l'economia industriale si delocalizza. Di come si possa reagire a una situazione negativa nel peggior modo possibile. Di una cultura che promuove sempre più il decadimento sociale anziché contrastarlo.
Vale la pena di osservare che anche se mi concentro sul gruppo etnico e sociale che conosco meglio - il proletariato bianco dei Grandi Appalachi - non dico affatto che meritiamo più simpatia degli altri. Non intendo sostenere che i bianchi hanno più motivo di recriminare dei neri o di qualunque altro gruppo. Ciò premesso, spero veramente che i lettori di questo libro possano capire quanto incidono la classe sociale e la famiglia sui poveri, a prescindere dalla loro condizione razziale. Per molti analisti, espressioni come «regina del welfare» evocano immagini fuorvianti di una pigra mamma nera che vive col sussidio di disoccupazione.
I lettori si renderanno conto ben presto che non c'è nessuna relazione tra quella figura mitica e le mie argomentazioni. Ho conosciuto molte «regine del welfare»: alcune erano mie vicine di casa, ed erano tutte bianche.
L'azienda occupava una dozzina di persone, che ci lavoravano quasi tutte da molti anni. Un mio collega faceva due lavori a tempo pieno, ma non perché ne avesse bisogno: il secondo lavoro che svolgeva là dentro gli consentiva di finanziare il suo grande hobby, pilotare un aereo. 13 dollari all'ora erano dei bei soldi per un single della nostra cittadina - dove l'affitto di un appartamento dignitoso costa più o meno 500 dollari al mese -, e la ditta di piastrelle offriva aumenti regolari. Tutti coloro che ci lavoravano da un po' guadagnavano almeno 16 dollari all'ora in un'economia in recessione, che si traducevano in un reddito annuo di 32.000 dollari, nettamente al di sopra della soglia di povertà delle famiglie. Nonostante la relativa stabilità del business, i dirigenti non riuscivano a coprire la mia posizione con un dipendente full-time. Quando me ne sono andato, nel magazzino lavoravano tre persone; con i miei ventisei anni, ero di gran lunga il più anziano.
Uno di loro, lo chiamerò Bob, era stato assunto pochi mesi prima di me. Aveva diciannove anni e la sua fidanzata era incinta. Il capo ha offerto generosamente alla ragazza una posizione di receptionist: doveva rispondere al telefono. Sia lui sia lei erano pessimi. La ragazza stava a casa ogni tre giorni senza mai avvisare.
Nonostante i ripetuti ammonimenti a cambiare atteggiamento, è durata solo pochi mesi. Bob si assentava almeno una volta la settimana ed era sempre in ritardo. Come se non bastasse, andava in bagno tre o quattro volte al giorno, e vi si tratteneva più di mezz'ora. A un certo punto, poco prima che scadesse il mio contratto, io e un collega abbiamo deciso di divertirci un po' alle sue spalle: mettevamo in funzione un timer quando andava in bagno e scandivamo ad alta voce i tempi delle sue sedute: «Trentacinque minuti!», «Quarantacinque minuti!», «Un'ora!».
Alla fine, è stato licenziato anche Bob, che se l'è presa con il suo capo: «Come hai potuto farmi questo? Non sai che la mia fidanzata è incinta?». E non era il solo: almeno altre due persone, tra cui suo cugino, hanno perso il lavoro o se ne
sono andati durante la mia breve permanenza in quella ditta di piastrelle.
Quando cito la situazione in cui versa la mia comunità, ricevo spesso una spiegazione che suona più o meno così: «Certo, le prospettive per i bianchi della classe operaia sono peggiorate, J.D., ma tu stai confondendo la causa con l'effetto: divorziano di più, si sposano di meno e sono meno felici perché le loro prospettive economiche si sono ridotte. Se avessero più occasioni di lavoro, migliorerebbero anche tutti gli altri aspetti della loro vita».
Un tempo la pensavo anch'io così, e da ragazzo volevo crederci a tutti i costi.
Ha senso. Essere disoccupati è stressante, e non avere abbastanza soldi per vivere lo è ancora di più. Quando il centro manifatturiero del Midwest industriale si è svuotato, il proletariato bianco ha perso sia la sicurezza economica sia la stabilità materiale e familiare che vi si accompagna.
Ma l'esperienza può essere una maestra severa, e a me ha insegnato che questa storia dell'insicurezza economica è, a dir poco, incompleta. Alcuni anni fa, l'estate prima di iscrivermi alla Yale Law School, cercavo un lavoro a tempo pieno per finanziare il mio trasferimento a New Haven, nel Connecticut. Un amico di famiglia mi ha proposto di andare a lavorare con lui in un'azienda di distribuzione di piastrelle che aveva sede poco lontano dalla mia città natale. Le piastrelle sono pesantissime, da un chilo e mezzo a tre chili l'una, e sono imballate quasi sempre in cartoni da otto a dodici pezzi. Il mio compito principale era caricare le piastrelle su un pallet e prepararlo per la spedizione. Non era un lavoro leggero, ma mi pagavano 13 dollari all'ora e avevo bisogno di quei soldi, perciò ho accettato la proposta cercando di fare più straordinari che potevo.
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