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Francesca Mannocchi
Francesca Mannocchi
Frasi di Francesca Mannocchi - pagina 2
Francesca Mannocchi
Giornalista italiana
1 ottobre 1981
Frasi in elenco
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25
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Pagina:
2
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3
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anche in questi temi:
Domande
Maternità
Malattie
Potere
Tasche
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A mio nonno non piaceva Gheddafi e non lo rispettava, ma non aveva nemmeno paura di lui. Neanche mio padre lo amava, credo. Ma mio padre aveva paura. Mio padre non ha mai amato nessuno se non sé stesso, quindi parlava poco. Non ha mai pensato a nessuno se non a sé stesso, nemmeno a noi, il suo motto era: chi resta nella stanza paga il conto.
L'emozione più semplice che provo, e la provo sempre, è l'immediata sensazione che io stessa e mio figlio siamo nati per uno scherzo del caso dalla parte fortunata del mondo. Un giorno glielo spiegherò. Poi arrivano emozioni più complesse, il dolore, la consapevolezza che probabilmente quei bambini non avranno mai le medesime possibilità che ha mio figlio, per quanti sforzi io e tanti altri facciamo per raccontare le ingiustizie cui sono sottoposti.
[Sulla sclerosi multipla]
Ha cambiato radicalmente il mio rapporto con il tempo. Tutta la fretta che avevo nel fare delle cose è stata spazzata via. Devo adattarmi al fatto che ci siano dei momenti in cui il mio corpo semplicemente non ce la fa a fare delle cose e quindi si deve fermare. E il rispetto di questa necessità di fermarmi
[...]
è in qualche modo
[...]
un insegnamento, è imparare ad ascoltare il tuo corpo anche nei suoi limiti.
Il nonno, dietro: «Anche il diavolo dice la verità qualche volta». Mio padre non era il diavolo, certo. Ma nemmeno la brava persona che credevo. Era pieno di ombre, come ognuno di noi del resto.
All'inizio degli anni Duemila avevo vent'anni, dividevo il tempo tra l'università e i lavori che mi distraevano dai libri. Un call center che vendeva aggiornamenti in cd-rom all'ordine degli architetti, i turni come cameriera in un bistrot svedese nei pressi del vecchio stadio cittadino, e le ripetizioni di latino e matematica ai ragazzini dei licei del centro.
Il tempo che restava erano avanzi, preparavo un esame dopo l'altro nei ritagli di giornata. Era il prezzo per rendermi economicamente indipendente da mio padre, l'autonomia, in casa mia, si è a lungo misurata così, a colpi di «se te lo puoi permettere da sola».
Da bambine si gioca alle bambole, alla vita e alla morte.
Un giorno, avevo otto anni, i capelli corti e una disperazione appena sbocciata, pensai: nei miei trent'anni mi ammalerò.
E così è stato.
[Sulla sclerosi multipla]
Questa malattia ha insegnato a me che non bisogna avere paura di chiedere aiuto e di dire: non ce la faccio. Verbalizzare un momento di fragilità è già un pezzo della cura. Ammettere di avere energie limitate, cosa che vale per tutti anche quando non siamo malati, è già il primo passo per stare meglio.
[...]
davvero questa malattia mi ha insegnato il valore radicale dell'ottimismo ed è importante nella relazione anche con mio figlio. Oggi sto bene e allora possiamo correre, giocare, andare sui prati, giocare a calcio. E io ottimisticamente voglio credere che lo potrò fare anche tra vent'anni, perché la ricerca ha fatto passi da gigante.
Non posso fidarmi di nessuno, ho fiducia solo delle mie tasche. Mio padre diceva che le tasche non mentono mai.
Lo sguardo degli altri ci determina così che il nostro corpo nello spazio si muove come un burattino guidato dai fili di altri, e quei fili, i fili del burattinaio sono le definizioni, le lenti con cui l'altro ci guarda.
[«Cosa comporta lo sguardo?»]
Ti diagnosticano un male, ergo diventi quel male, sei malato. Credo dovremmo ripartire da qui nel raccontare le malattie: sono Francesca, ho ricevuto una diagnosi di SM, non sono malata, ho una malattia. Questo è il principio dell'incomunicabilità per un malato. Viviamo in un tempo che ha bisogno di griglie definite, riluttante a convivere con la complessità e le sfumature. Perciò se sei portatore di un handicap diventi un "handicappato", se ti è capitato di vedere due guerre in vita tua diventi un "inviato di guerra", se fai un figlio sei prima di tutto "madre", questo è sufficiente a definirti e rischia di corrispondere con la tua identità. Lo sguardo che è ansioso di definire rischia di determinare l'identità, incarcerandola.
Noi probabilmente diamo sempre per scontato che ci sia una cosa comune, un servizio universale per la salute. Invece non dobbiamo dimenticarci che questo sistema sanitario di protezione non è per nulla scontato che ci sia. In tanti paesi del mondo non c'è. Credo che dobbiamo avere rispetto, pretendere molto da chi è custode del patto che ha dato vita al sistema sanitario nazionale. Ma di quel patto noi come singoli dobbiamo avere cura. Dobbiamo riuscire a usare ma non ad abusare di questo sistema, nella consapevolezza di essere davvero fortunati ad averlo.
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