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Phil Knight
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Frasi di Phil Knight - pagina 3
Phil Knight
Imprenditore statunitense, fondatore...
24 febbraio 1938
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«Nessuna idea brillante è mai nata in una sala riunioni» garantì Stahr al Danese. «Ma in compenso ci sono morte un sacco di idee cretine.» FRANCIS SCOTT FITZGERALD, L'amore dell'ultimo milionario
Mi alzai prima degli altri, prima degli uccelli, prima del sole. Bevvi una tazza di caffè, trangugiai un pezzo di pane tostato, indossai calzoncini e maglietta e mi allacciai le scarpe da corsa verdi. Poi uscii di soppiatto dalla porta sul retro. Stiracchiai le gambe, i tendini posteriori delle ginocchia, i muscoli lombari e mugolai, muovendo a fatica i primi passi lungo la strada immersa nel freddo e nella nebbia. Perché è sempre così difficile mettersi in moto?
Oggi le fabbriche che realizzano i nostri prodotti sono fra le migliori al mondo. Un funzionario delle Nazioni Unite di recente ha affermato che la Nike è il modello in base al quale valutano tutte le fabbriche di abbigliamento sportivo.
Ero conquistato da tutti i grandi generali, da Alessandro Magno a George Patton. Odiavo la guerra, ma amavo lo spirito guerriero. Odiavo la spada, ma amavo i samurai. E di tutti i grandi combattenti della storia, trovavo MacArthur il più affascinante. Quei Ray-Ban, quella pipa di pannocchia... la sicurezza di sé non gli mancava di certo. Tattico brillante, maestro nel motivare, aveva diretto anche il Comitato olimpico statunitense. Come potevo non amarlo? Di difetti ne aveva tanti, ovvio. Ma lo sapeva. Sarai ricordato, disse profeticamente, per le regole che avrai infranto.
La fiducia in te stesso era come il denaro contante. Dovevi averne per ottenerne altra. E la gente detestava dartene.
Un momento d'oro della mia vita. Le vendite della Nike erano stabili, mio figlio cresceva sano, riuscivo a pagare puntualmente le rate dell'ipoteca. Tutto sommato, ero di ottimo umore quell'agosto. E poi cominciarono i guai. Nella seconda settimana delle Olimpiadi, una squadra di otto uomini armati e mascherati scalò il muro di cinta del villaggio olimpico e rapì undici atleti israeliani. Portammo un televisore nel nostro ufficio di Tigard e smettemmo totalmente di lavorare. Restammo incollati alla tv un giorno dopo l'altro, in silenzio, spesso con le mani sulla bocca. E quando si arrivò alla catastrofe, quando i notiziari rivelarono che tutti gli atleti erano morti, i corpi riversi sull'asfalto macchiato di sangue dell'aeroporto, ripensammo tutti alle morti dei due Kennedy, di Martin Luther King, degli studenti della Kent State, e delle decine di migliaia di ragazzi in Vietnam. La nostra era un'epoca difficile, che grondava sangue, e almeno una volta al giorno eravamo costretti a chiederci: ma che senso ha?
Dovevamo assumere persone dalla mente acuta, questa era la priorità, e contabili e avvocati avevano almeno dimostrato di saper padroneggiare argomenti difficili. E superare grandi prove. Gran parte di loro, inoltre, possedeva un bagaglio di competenze di base. Se assumevi un contabile, eri certo che almeno sapesse contare. Se assumevi un avvocato, eri certo che almeno sapesse parlare. Se assumevi un esperto di marketing, o uno sviluppatore di prodotti, cosa sapevi di lui? Niente. Non potevi prevedere cosa avrebbe fatto, e neppure se fosse in grado di fare qualcosa. E il classico laureato in gestione aziendale? Non aveva la minima voglia di cominciare vendendo scarpe da un borsone. Per di più, nessuna di queste persone aveva la minima esperienza, quindi assumerle era un azzardo basato soltanto su un semplice colloquio.
Il commercio internazionale beneficia sempre, sempre, entrambe le nazioni interessate. Un'altra frase che ho sentito spesso dagli stessi professori è l'antica massima: «Quando le merci non valicano i confini nazionali, lo faranno i soldati». Anche se, com'è risaputo, definisco gli affari una guerra senza pallottole, li considero comunque uno splendido baluardo contro la guerra vera. Il commercio è la via della coesistenza, della cooperazione. La pace si alimenta con la prosperità.
Ero al secondo anno, esausto per il gran daffare. Lezione tutta la mattina, allenamento tutto il pomeriggio, studio tutta la notte. Un giorno, sentendomi l'influenza, passai da Bowerman per dirgli che non ce l'avrei fatta ad allenarmi. «Uh uh» fece. «Chi è l'allenatore di questa squadra?» «Lei.» «Be', come allenatore di questa squadra ti dico di portare via il culo da qui. E, a proposito, avremo una prova a cronometro, oggi.» Ero prossimo alle lacrime. Ma tenni duro, incanalai tutte le mie emozioni nella corsa e feci uno dei miei tempi migliori di quell'anno. Lasciando la pista guardai in cagnesco Bowerman. Contento adesso, figlio di ...? Lui mi fissò, controllò il cronometro, mi fissò di nuovo e annuì. Mi aveva messo alla prova. Mi aveva fatto a pezzi e ricomposto, proprio come un paio di scarpe. E io avevo retto. Da allora fui veramente uno dei suoi Uomini dell'Oregon. Da quel giorno in poi, fui una tigre.
Stavamo cercando di creare un marchio, gli dissi, ma anche una cultura. Combattevamo contro il conformismo, la noia, il lavoro ingrato. Più che un prodotto intendevamo vendere un'idea, uno spirito. Non so se avevo mai compreso appieno chi fossimo e che cosa stessimo facendo, finché non mi sentii dire tutto quanto quel giorno
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