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Phil Knight
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Frasi di Phil Knight - pagina 4
Phil Knight
Imprenditore statunitense, fondatore...
24 febbraio 1938
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Pagina:
4
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Denaro
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La gente presume che la competizione sia sempre una buona cosa, che tiri fuori sempre il meglio dalle persone, ma ciò è vero soltanto per chi riesce a dimenticarla. L'arte di competere, ho imparato correndo, era l'arte di dimenticare
Neanch'io guadagnavo un granché, e confidavano nel fatto che quello che gli davo era quello che potevo permettermi.
Certo, certo, ci dicevamo, sarebbe fantastico avere un'iniezione così rapida e indolore di capitali. Ah, le cose che avremmo potuto fare con quei soldi! Le fabbriche che avremmo potuto noleggiare! I talenti che avremmo potuto assumere! Ma quotarci in Borsa avrebbe cambiato la nostra cultura, ci avrebbe imposto obblighi, ci avrebbe reso un'entità giuridica. Eravamo tutti d'accordo che non era quello che volevamo. A distanza di qualche settimana, di nuovo senza soldi e con i conti vuoti, riesaminammo l'idea. E la respingemmo ancora. Con l'intento di risolvere la questione una volta per tutte, misi l'argomento in cima all'ordine del giorno dell'assemblea che tenevamo due volte all'anno, un ritiro cui avevamo dato il nome di Buttface. Pensiamo sia stato Johnson a coniare la frase, quella volta che borbottò, nel corso di uno dei primi nostri ritiri: «In quante società da svariati milioni di dollari puoi gridare "Ehi, buttface", e tutti i manager si voltano?». Scoppiammo a ridere. E il concetto rimase. E poi divenne una parola chiave del nostro gergo. Buttface (Facciadiculo) si riferiva sia al ritiro sia ai partecipanti, e non solo coglieva l'atmosfera informale di quei ritiri, dove nessuna idea era così inviolabile da non poterla dissacrare e nessuno era così importante da non poterlo ridicolizzare, ma riassumeva anche lo spirito, la mission e la cultura aziendale.
Non esisteva la cifra giusta. Era tutta una questione di opinioni, sensazioni, vendita: per gran parte degli ultimi diciotto anni non avevo fatto altro che vendere, ed ero stufo. Non volevo più vendere. Le nostre azioni valevano 22 dollari l'una. Quella era la cifra, ce l'eravamo guadagnata. Meritavamo di collocarci nella fascia alta di prezzo. Quella stessa settimana si stava quotando in Borsa un'azienda che si chiamava Apple, che aveva fissato il prezzo delle azioni a 22 dollari, e noi valevamo quanto loro, dissi a Hayes. Se un manipolo di tizi di Wall Street non la pensava così, ero pronto a ritirare l'offerta.
Woodell vive nell'Oregon centrale con la moglie. Per anni ha pilotato il suo aereo privato, mostrando il dito medio a chi gli diceva che non avrebbe mai potuto. (L'aereo privato, soprattutto, voleva dire che non avrebbe dovuto più preoccuparsi che una linea aerea perdesse la sua sedia a rotelle.) È uno dei migliori narratori nella storia della Nike. Il racconto che preferisco è quello del giorno in cui ci siamo quotati in Borsa. Andò dai suoi genitori e riferì la novità. «Che cosa significa?» sussurrarono. «Significa che il vostro prestito di 8000 dollari a Phil adesso vale 1 milione e 600.000 dollari.» Loro si guardarono, poi fissarono Woodell. «Non capisco» replicò sua madre. Se non puoi fidarti dell'azienda per cui lavora tuo figlio, di chi ti puoi fidare? Quando andò in pensione dalla Nike, Woodell si mise a lavorare per l'Autorità portuale di Portland, a gestire fiumi e aeroporti. Un uomo immobilizzato che guidava tutto quel movimento. Che bello. Woodell è anche il principale azionista e direttore di un microbirrificio che ha molto successo. Ha sempre amato la birra.
Quale che sia lo sport – o la meta, in realtà –, l'abnegazione totale conquisterà sempre il cuore della gente.
Più o meno a metà strada uscii dalla trance e cominciai a pensare a Penny e ai ragazzi. I Buttface erano come una famiglia, ma ogni minuto che passavo con loro era sottratto all'altra famiglia, quella vera, la mia. Il senso di colpa era palpabile. Spesso entravo in casa e Matthew e Travis mi venivano incontro sulla porta. «Dove sei stato?» mi chiedevano. «Papà era con i suoi amici» rispondevo io, prendendoli in braccio. Loro mi squadravano, un po' incerti. «Ma la mamma ha detto che eri al lavoro.» Fu più o meno in quel periodo, mentre la Nike presentava al pubblico le sue prime scarpe per bambini, le Wally Waffle e le Robbie Road Racer, che Matthew dichiarò che non avrebbe mai portato un paio di Nike in vita sua. Era il suo modo di esprimere rabbia per le mie assenze, insieme ad altre frustrazioni. Penny cercò di fargli comprendere che papà non era assente per un capriccio. Papà stava cercando di costruire qualcosa. Papà stava cercando di garantire a lui e a Travis la possibilità di andare un giorno all'università. Non mi presi la briga di dare spiegazioni. Mi dissi che non importava ciò che dicevo. Matthew non mi capiva mai, e Travis mi capiva sempre: sembravano nati con questi due atteggiamenti già dentro di loro, invariabili. Matthew sembrava covare una sorta di risentimento innato nei miei confronti, mentre Travis pareva affezionato a me in maniera congenita. Che differenza poteva fare qualche parola in più? Che differenza poteva fare qualche ora in più? Il mio modo di essere padre, il mio modo di essere manager. Me lo chiedevo in continuazione: va bene, o è appena sufficiente? Ogni volta mi ripromettevo di cambiare. Ogni volta mi dicevo: passerò più tempo con i miei figli. Ogni volta mantenevo la promessa... per un po'. Poi ricadevo nella consueta routine, l'unica che conoscevo. Ignorarli no. Ma nemmeno stargli addosso. Probabilmente era l'unico problema che non potevo risolvere grazie a un brainstorming con i Buttface. Rispetto a far arrivare le intersuole dal punto A al punto B, era ben più intricato capire come regolarmi con il Figlio A e il Figlio B, e come renderli felici intanto che tenevo a galla la Nike, il Figlio C.
Nel 1965, la corsa non era nemmeno uno sport. Non era popolare, non era impopolare. Qualcuno correva, e basta. Uscire per una corsa di cinque chilometri era una cosa per gente stramba, che doveva probabilmente sfogare qualche ossessione. Correre per piacere, correre per fare esercizio, correre per le endorfine, correre per vivere meglio e più a lungo... erano tutte possibilità sconosciute.
Come i libri, lo sport dà alla gente il senso di aver vissuto altre vite, di aver preso parte alle vittorie di altri. E alle loro sconfitte. Quando lo sport mostra il suo volto migliore, lo spirito del tifoso si fonde con quello dell'atleta e in quella convergenza, in quel transfert, c'è l'unione di cui parlano i mistici.
Ancora non sapevo esattamente cosa volesse dire vincere, a parte non perdere, ma sembrava che ci stessimo avvicinando a un momento decisivo in cui la questione sarebbe stata risolta, o quantomeno definita meglio. Forse quel momento sarebbe stato la quotazione in Borsa. Forse quotarci in Borsa avrebbe garantito che la Nike sarebbe rimasta in vita.
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