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Phil Knight
Phil Knight
Frasi di Phil Knight - pagina 6
Phil Knight
Imprenditore statunitense, fondatore...
24 febbraio 1938
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Pagina:
6
di
8
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Denaro
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Una cosa è guardare un evento sportivo e mettersi nei panni degli atleti. Qualunque tifoso può farlo. Un'altra è quando sono gli atleti a mettersi nei tuoi panni, o meglio, nelle tue scarpe.
Trascorrevo molti pomeriggi in ufficio con Strasser, tentando di capire il motivo per cui alcune linee di prodotti si vendevano e altre no, il che ci portava a discorsi più ampi riguardo a ciò che la gente pensava di noi, e perché. Non avevamo focus group o ricerche di mercato – non ce li potevamo permettere – così cercavamo di usare l'intuito, di indovinare, di leggere il futuro nelle foglie di tè. Era chiaro che alle persone piaceva l'aspetto delle nostre scarpe, su questo eravamo d'accordo. Era chiaro che piaceva la nostra storia, un'azienda dell'Oregon fondata da patiti della corsa. Era chiaro che piaceva cosa diceva di loro l'indossare un paio di Nike. Eravamo più di un marchio, eravamo una dichiarazione di intenti.
La vigilia di Capodanno del 1977, mentre giravo per la mia nuova casa a spegnere le luci, percepii una sorta di incrinatura in quelle che erano le fondamenta della mia esistenza. La mia vita si basava sullo sport, la mia azienda si basava sullo sport, il mio legame con mio padre si basava sullo sport, ma nessuno dei miei due figli voleva avere nulla a che fare con lo sport.
Mi rendo conto che per alcuni fare affari significa perseguire il profitto a oltranza, punto e basta, ma per noi, dire che il nostro solo scopo era fare soldi era come dire che il solo scopo di un essere umano è produrre sangue. Sì, il corpo umano ha bisogno di sangue. Ha bisogno di fabbricare globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, e di ridistribuirli uniformemente e senza intoppi nei punti giusti e al momento giusto. Quell'attività quotidiana del corpo, però, non è la nostra missione in quanto esseri umani. È un processo di base che ci permette di raggiungere i nostri obiettivi più alti, e la vita si sforza sempre di trascendere i processi di base del vivere.
Era uno con cui era facile parlare, e anche stare zitti: due qualità altrettanto importanti in un amico. Essenziali in un compagno di viaggio.
La regola base di ogni trattativa è sapere che cosa vuoi, quello che hai bisogno di portare a casa per sentirti soddisfatto.
Dissi a me stesso che vivere significava crescere. O cresci, o muori.
Adesso ci serviva soltanto un nome da abbinare a quel logo che non amavo. Nei giorni successivi discutemmo decine di idee, fino a quando emersero due possibili candidature. Falcon. E Dimension Six. Io propendevo per il secondo perché lo avevo proposto io. Woodell e tutti gli altri mi dissero che era orribile. Non restava impresso e non voleva dire niente. Lanciammo un sondaggio fra i dipendenti. Segretarie, contabili, rappresentanti, commessi, archivisti, magazzinieri: chiedemmo a tutti di passare e suggerire almeno un nome. La Ford aveva appena pagato 2 milioni di dollari a un consulente di alto profilo perché trovasse un nome alla nuova Maverick. Annunciai a tutti: «Non abbiamo 2 milioni di dollari, ma cinquanta persone brillanti, e non possiamo fare peggio di... Maverick». Inoltre, diversamente dalla Ford, avevamo una scadenza. Quel venerdì la Canada avrebbe messo in produzione le nostre scarpe. Avevamo passato ore e ore a litigare e urlare, dibattendo le virtù di questo o quel nome. A qualcuno piaceva il suggerimento di Bork, Bengal. Altri dissero che l'unico nome possibile era Condor. Io sbuffavo e brontolavo. «Nomi di animali. Nomi di animali! Abbiamo preso in considerazione il nome di quasi tutti gli animali della foresta. Deve proprio essere un animale?» Io continuavo a insistere per Dimension Six. E i miei dipendenti continuavano a rispondere che era atroce oltre ogni dire. Qualcuno, non ricordo chi, riassunse la situazione in due parole. «Tutti quei nomi... fanno schifo.» Forse era Johnson, ma, stando a tutti i documenti, lui era già tornato a Wellesley. Una sera tardi eravamo tutti stanchi e la nostra pazienza si era esaurita. Se avessi sentito un altro nome di animale mi sarei buttato dalla finestra. Domani è un altro giorno, dicemmo, uscendo dall'ufficio diretti alle nostre auto. Tornai a casa e sedetti sulla mia poltrona reclinabile. La mia mente andava continuamente avanti e indietro. Falcon? Bengal? Dimension Six? Altro? Nient'altro? Arrivò il giorno della decisione. La Canada aveva già messo in produzione le scarpe, e i campioni erano pronti a partire, ma prima che le potessero spedire avremmo dovuto scegliere un nome. Avevamo anche in programma pagine pubblicitarie sui periodici, che dovevano uscire in concomitanza con le spedizioni, e i grafici aspettavano di sapere che nome inserire. Poi, non ultimo, dovevamo presentare la documentazione all'Ufficio brevetti americano. Woodell entrò nel mio ufficio. «Il tempo è scaduto» disse. Mi sfregai gli occhi. «Lo so.» «Allora, quale sarà il nome?» «Non lo so.» Mi si stava spaccando la testa. Ormai i nomi si fondevano nella mia mente sotto pressione in un caos demenziale. Falconbengaladimensionsix. «Ci sarebbe... un ulteriore suggerimento» disse Woodell. «Di chi?» «Johnson ha telefonato stamattina prestissimo» rispose. «Pare che l'altra notte gli sia venuto in mente un nome in sogno.» Alzai gli occhi al cielo. «In sogno?» «Lo dice seriamente» disse Woodell. «Lui è sempre serio.» «Dice di essersi svegliato di colpo nel bel mezzo della notte e di aver visto il nome davanti a sé» dichiarò Woodell. «E quale sarebbe?» chiesi, preparandomi al peggio. «Nike.» «Cosa?» «Nike.» «Come si scrive?» «N-I-K-E» compitò Woodell. Lo scrissi su un bloc-notes giallo. La dea greca della vittoria. L'Acropoli. Il Partenone. Il Tempio. Ci pensai per un momento, breve. «Il tempo è scaduto» dissi. «Nike. Falcon. Oppure Dimension Six.» «A nessuno piace Dimension Six.» «A nessuno tranne a me.» Si rabbuiò. «La scelta è tua.» Mi lasciò solo. Scarabocchiai sul bloc-notes. Scrissi elenchi, li cancellai. Tic-tac, tic-tac. Dovevo spedire il telex alla fabbrica. Subito. Odiavo prendere decisioni in fretta, ma in quei giorni sembrava facessi soltanto quello. Fissai il soffitto. Mi concessi altri due minuti per rimuginare sulle diverse opzioni, poi andai al telex. Una volta seduto lì davanti, mi accordai altri tre minuti. Riluttante, digitai il messaggio. Il nome del nuovo marchio è... Per la testa mi passavano un'infinità di pensieri, consci e inconsci. In primo luogo Johnson, che ci aveva fatto notare come tutti i marchi iconici – Clorox, Kleenex, Xerox – avessero nomi brevi. Due sillabe o meno. E sempre un suono forte nel nome, una lettera come la «k» o la «x», che rimane impressa. Tutto aveva senso. E tutto descriveva il nome Nike. Poi mi piaceva che Nike fosse la dea della vittoria. Che cosa c'è di più importante della vittoria?, pensai. Nei lontani recessi della mia mente, forse sentii anche la voce di Churchill. Se chiedete quale sia il nostro obiettivo, vi rispondo con una sola parola: la vittoria. O forse ho ricordato la Victory Medal assegnata a tutti i veterani della seconda guerra mondiale, una medaglia di bronzo che raffigura Atena Nike mentre spezza in due una spada. Forse. A volte credo che sia successo. Ma alla fine non so davvero che cosa mi abbia portato alla decisione. Fortuna? Istinto? Una voce interiore? Sì. «Che cos'hai deciso?» mi chiese Woodell alla fine di quel giorno. «Nike» borbottai. «Mmm» rispose. «Sì, lo so» replicai. «Forse ci abitueremo» disse. Forse.
Il modo migliore per rafforzare la conoscenza di una materia è condividerla.
Il mio ufficio privato era elegante ed enorme, più grande di tutta la nostra prima sede, quella accanto al Pink Bucket. E completamente vuoto. La decoratrice d'interni aveva optato per il minimalismo giapponese, con una nota assurda che suscitava l'ilarità generale. Come tocco di classe aveva piazzato accanto alla mia scrivania una poltrona di cuoio che era un enorme guantone da baseball. «Ora,» mi disse «si potrà sedere qui ogni giorno e pensare alle sue... cose di sport.» Sedetti su quella poltrona sentendomi una palla lanciata male e guardai fuori. Avrei dovuto gustare quel momento, apprezzarne l'umorismo e l'ironia. Uno dei grandi dispiaceri della mia vita era stata l'esclusione dalla squadra di baseball della mia scuola, e in quel momento ero seduto su un guantone gigante, in un ufficio sfacciatamente chic, ed ero il presidente di un'azienda che vendeva «cose di sport» ai giocatori di baseball professionisti. Ma invece di apprezzare i traguardi raggiunti, vedevo soltanto la strada che ci restava da fare. Dalla mia finestra si godeva una vista meravigliosa, ma tutto quello che riuscivo a vedere io era il bicchiere mezzo vuoto. Allora non capivo cosa mi stesse accadendo, ma ora sì. Stavo pagando tutti gli anni di stress. Se vedi soltanto problemi, non hai una visione chiara delle cose. E proprio nel momento in cui avevo bisogno di essere più lucido, ero prossimo all'esaurimento.
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